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Le “Lazzarelle” di Pozzuoli, dal carcere alla torrefazione del caffè. «La nostra impresa al femminile»

10 febbraio 2022 Imma Carpiniello, ceo della cooperativa sociale, nata all’interno dell’istituto di pena
«Il carcere è un’esperienza dura. Ti fa perdere la fiducia in te, nelle tue capacità. Ti cambia nel profondo». Giulia lo sa bene, in carcere ci sta da anni. Non non ama parlarne ma nel suo sguardo ci sono i segni di un vissuto denso fatto di errori, di marginalità, di abbandoni. Due anni fa ha iniziato a lavorare con «Lazzarelle», una cooperativa sociale di sole donne nata nel 2010, che produce caffè artigianale di alta qualità, all’interno del carcere femminile di Pozzuoli. Quando ha cominciato quest’esperienza era spaventata. Sono bastati pochi giorni e il lavoro l’ha trasformata. Giulia oggi ha ritrovato quella fiducia nascosta chissà in quale anfratto del suo passato. Ora è una donna fiera che guarda al futuro senza paura, una Lazzarella. Una donna che, grazie all’idea, alla passione e all’impegno di Imma Carpiniello, ceo della cooperativa, è riuscita a ritrovarsi.

Imma come nasce l’idea di Lazzarelle?

«L’idea è stata quella di creare un’impresa all’interno del carcere per dare l’opportunità lavorativa alle detenute. Abbiamo deciso di porci subito con una visione aziendale. Niente borse di lavoro, niente tirocini, solo contratti veri. D’altronde bisognava sin da subito far confrontare queste donne con la realtà, con i diritti e con le garanzie del mondo del lavoro».

Come mai proprio il caffè?

«Abbiamo scelto il caffè per tre ragioni sostanziali. La prima è che siamo a Napoli e qui c’è la cultura del caffè. La seconda è che questo è stato sempre un mercato esclusivamente maschile. Non si erano mai viste donne che lavorano il caffè. L’idea di stravolgere questa dicotomia ci ha affascinato».

E la terza?

«È un mercato caratterizzato dai grandi e potenti player globali e piccoli produttori sfruttati. Noi anche in questo ci siamo messe di traverso. Abbiamo fatto una piccola torrefazione artigianale, abbiamo acquistato il caffè da una cooperativa che è nel settore di equo e garantito. Ci siamo schierati sempre dalla parte dei più deboli».

Come è stato il primo impatto con le detenute?

«Dieci anni fa in carcere c’era un’aria di sconforto legata proprio ai progetti di lavoro. Il nostro però non è mai stato il piccolo progettino staccato dalla realtà economica. La nostra esperienza è nata con l’idea di fare davvero impresa. Anche se la fase di start up non è stata per niente semplice.

Ci racconti le difficoltà.

«Non eravamo torrefattici di famiglia, abbiamo dovuto iniziare da zero. All’inizio tra prove e tentativi abbiamo bruciato tantissimo caffè. Non ci siamo arrese, ci abbiamo creduto e oggi produciamo un caffè di altissima qualità, apprezzato ovunque».

E invece le soddisfazioni maggiori?

«Il rapporto con le detenute che hanno lavorato con noi è la cosa migliore di quest’esperienza. Tutte le donne che hanno fatto parte della cooperativa, anche per un breve periodo, si sono sentite parte integrante di questa realtà non semplici lavoratrici e questo è fondamentale per ricostruire la loro vita».

Quanto è servita Lazzarelle a queste donne?

«Le Lazzarelle hanno background difficili. C’è un tasso di abbandono scolastico enorme, vengono da ambienti violenti, contesti criminali nei quali la donna non ha la possibilità di gestire la sua vita. Poi arriva il carcere che per sua natura è un’istituzione totale che tende a spersonalizzarti. Lazzarelle invece è un’esperienza di inclusione che coinvolge le detenute e che permette loro di riacquisire quelle competenze che con il carcere toglie».

E poi una volta fuori?

«Chi ha lavorato con noi si reimpiega. Conquista la sua autonomia economica perché fuori trova un mondo al quale è preparata. Le Lazzarelle vivono un processo di emancipazione attraverso il lavoro, perché avere una busta paga ti rende libera, ti fa uscire dal tuo ambiente familiare e dal contesto criminale».

Come mai il nome Lazzarelle?

«Quando abbiamo iniziato abbiamo attivato una progettazione partecipata per scegliere il nome della nostra cooperative. Il primo gruppo di lavoratrici ha preso parte a questo processo. Ogni detenuta ha fatto la sua proposta, poi abbiamo votato e ha vinto “Lazzarelle”. Il nome perfetto».

Perché?

«È lo specchio della detenzione femminile. A Pozzuoli molte delle donne con le quali lavoriamo sono a bassa pericolosità sociale, che hanno commesso reati per mettere il piatto a tavola. Sono proprio loro le Lazzarelle, le bambine che hanno fatto qualche marachella e che ora stanno provando a rimediare. Anche il rosa della nostra busta lo abbiamo scelto così. Un esperto di marketing avrebbe consigliato i colori della terra, giusto ma il nostro rosa potrà essere anche un pugno nell’occhio ma ha una storia».

Come procede dal punto di vista aziendale?

«Lazzarelle è diventata una realtà economica importante. Abbiamo una rete di acquirenti fatta botteghe, bar, agriturismi, ristoranti e b&b. Attività che hanno fatto una scelta etica ma anche privati che voglio una miscela di qualità. Visto che le cose semplici non ci piacciono, nel luglio 2020, in piena pandemia, abbiamo aperto un bistrò in Galleria Principe nel centro di Napoli. Qui le detenute che fanno il percorso di lavoro con noi in torrefazione, terminano la pena in lavoro esterno. Noi abbiamo i conti in attivo e la cooperativa vive dei profitti che facciamo. Siamo un’impresa sociale ed economica e per me una cosa non esclude l’altra anzi, è proprio questa la forza di noi Lazzarelle di Pozzuoli».

FONTE a cura di Claudio Mazzone

Legacoop Pari Opportunità
contro la violenza di Genere